COVID E LOCAZIONI COMMECIALI, VALE LA LEGGE DEL PIU’ FORTE
COVID E LOCAZIONI COMMECIALI, VALE LA LEGGE DEL PIU’ FORTE
Siamo in rianimazione, un solo respiratore, due malati entrambi con gravissima insufficienza respiratoria, cosa accade?
Il medico non dirà ai malati vedetevela tra di voi, ma da soggetto responsabile della cura, pure nella drammaticità del momento nel quale mai avrebbe voluto trovarsi, farà una scelta.
Questo nella pandemia sanitaria, ma nel suo risvolto socioeconomico?
Pensiamo alle locazioni commerciali uso non abitativo, sulle quali impattano fortemente le misure di contenimento anti covid19, dalla chiusura delle attività, alla riduzione degli orari di apertura, dalle misure di distanziamento nel servizio, alla riduzione della circolazione degli avventori, ecc.
Nel contratto di locazione il locatore mette a disposizione l’immobile e il locatario si impegna a pagare un canone, ciò sul presupposto che possa svolgersi l’attività commerciale secondo parametri economici di reciproca convenienza apprezzati al momento della stipula del contratto.
Ma se queste condizioni saltano, non per colpa del locatore o del locatario, ma per le scelte fatte dal governo circa le modalità di contenimento della pandemia, cosa accade?
Sarebbe normale attendersi che chi ha la responsabilità delle misure anti covid assuma su se stesso anche l’onere della soluzione dello squilibrio economico indotto tra le parti sociali e invece no, si rimette ad altri la questione.
A chi?
Ai giudici, chiamati dalla politica (cfr. art.6-bis DL 23/02/2020, n. 6) a supplire il vuoto di governo, i quali fanno quello che possono, dovendo fare i conti con gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico (art.1467 c.c.) e ancor prima con la loro sensibilità nell’apprezzare il caso concreto.
E’ pacifico che il locatario deve pagare il locatore, quindi non può di propria iniziativa smettere di pagare o autoridursi il canone a piacimento, semmai deve assumere l’iniziativa di una rinegoziazione consensuale che soddisfi entrambe le parti.
Ma se l’accordo non si trova ecco che il giudice, chiamato dal locatario, potrebbe d’imperio, oltre a non concedere lo sfratto per morosità e sospendere fideiussioni e incassi di assegni a garanzia, imporre una rinegoziazione a propria discrezione secondo una scontistica circoscritta nel tempo, così conservando il contratto in essere a salvaguardia dell’avviamento dell’attività.
Il principio invocato in questi casi è quello della buona fede nell’esecuzione del contratto (art.1375 c.c.), quale regola di condotta che dovrebbe fungere nei rapporti di durata da bussola per i naviganti nel mare degli imprevisti della vita.
Sul principio nulla da dire, ma la buona fede può declinarsi dolcemente in termini di solidarietà (art.2 Cost.) fino poi a incespicare sulla superficie ruvida della libertà di impresa e dei rischi che essa naturalmente comporta (art.41 Cost.).
In più piane parole, se le cose vanno male è giusto stringere tutti la cinghia, verità sacrosanta, ma siamo proprio sicuri che il locatore debba farsi carico della perdita del locatario?
Il rischio di impresa è dell’imprenditore e quando gli affari vanno bene è solo questi che guadagna, quindi perché se le cose gli vanno male a doversene fare carico è il proprietario delle mura dove si svolge l’azienda?
Privatizzazione del profitto e socializzazione della perdita?
E quale la misura imposta?
Una cosa è se il proprietario delle mura è una banca o un’assicurazione impegnata nel business degli immobili di pregio, ma se invece si tratta di un pensionato, che dopo una vita di sacrifici da quel canone di locazione trae le risorse economiche per andare avanti o magari pagare gli studi al nipote, è giusto imporgli di accollarsi quota parte del mancato pagamento del canone?
Accade così che nella pandemia economica le parti sociali sono abbandonate a se stesse e rimesse a risolvere tra loro davanti a un giudice il problema della sopravvivenza secondo la legge del più forte.
Porto San Giorgio, FM, li 22/11/2020
Avv. Andrea Agostini